Racconto viaggio in Peru

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20 luglio 2000 (giovedì)

Lima, finalmente. Ciò che più mi pesa ogni volta che torno in Perù è l’
interminabile viaggio aereo: 15-16 ore che non passano mai. Le gambe dolgono
e lo stomaco pure a causa dell’enorme quantità di poco appetibile cibo che
continuo ad ingoiare automaticamente, sperando che il tempo scorra rapido.

Ormai è troppo tardi per proseguire subito il viaggio, pertanto decidiamo di
sfuggire all’insopportabile clima limegno cercando rifugio in un albergo del
Callao, nei pressi dell’aeroporto.

“Dai ragazze, una buona notte di riposo e poi domattina si parte. Vedrete,
Pozuzo vi piacerà”. Blanca e Valeria Valicha mi guardano con gli occhi
spalancati.

“Sei fuori?”, sbotta la mia dolce mogliettina, “Dopo tutte queste ore, credi
che abbiamo voglia di sorbirci altre tribolazioni? No, caro, domattina ci
alzeremo con calma e prenderemo un aereo per Arequipa”. “Ma…”, cerco di
protestare, “Niente ma”, incalza Valeria, la figliola devota, “mamma ha
ragione e tu sei il solito esagerato. Poi, ad Arequipa ci aspetta il nonno e
non vedo l’ora di ritrovare i miei amici”.

La notte trascorre lenta e noiosa. Il cambio di stagione e il fuso orario,
penso. Ma no! Blanca e Valeria russano placide. Solo io non riesco a
prendere sonno. Rivoltandomi nel letto fra le lenzuola umide, rimugino senza
sosta. Le mie donne hanno ragione. Il viaggio verso l’Amazzonia centrale è
duro, difficile da intraprendere anche da parte di persone riposate;
figuriamoci che travaglio sarebbe per noi già così provati.

Le mie donne hanno ragione. Sì, però non riesco a dormire.

21 luglio 2000 (venerdì)

Le otto. Mentre esco dalla doccia, ascolto i movimenti e i suoni gutturali
provenienti dalla jungla della camera. Le signore si stanno stiracchiando
soddisfatte ed ora pregustano una buona colazione, prima di effettuare l’
ultimo balzo aereo verso la “ciudad blanca”. Arequipa è ad un’ora di volo.
Presto forzeremo questa cappa grigia che opprime Lima e ci libreremo nel
cielo, verso il sole caldo e accogliente della valle del Misti.

“Ragazze”, abbozzo imbarazzato, “siete davvero decise?”. “Va bene, abbiamo
capito”, rispondono ridacchiando le mie fanciulle, “accompagnaci in
aeroporto e poi vai, se ci tieni così tanto a cacciarti nei guai”.

Un paio di jeans gualciti, qualche maglia in non migliori condizioni e poca
biancheria è tutto quello che decido di portare con me dentro allo zaino già
provato da altre esperienze.

In avenida Manco Càpac è ubicato il terminal della linea di autobus
“Chanchamayo”, forse la migliore opzione per raggiungere la cittadina di La
Merced, alle porte dell’Amazzonia centrale del Perù.

Mentre attendo la partenza dell’automezzo che alle 11.30 mi porterà verso le
Ande, non posso fare a meno di ringraziare la buona sorte. Quando giungo
allo sportello della biglietteria, infatti, scopro con disappunto che tutti
i posti del bus risultano prenotati da giorni, però, conoscendo come vanno
le cose in questa parte del mondo, non desisto.

Sorrido teneramente alla bigliettaia: inutile. Mi dispero: ” ¿Pero, señor,
que puedo hacer? No hay campo, les digo”. Mi invento che la famiglia mi sta
aspettando, che non la vedo da troppo tempo, che non posso attendere oltre:
“Està bién, señor, si usted quiere abrìa un campito en el fondo del omnibus,
pero no se si podrà acomodarse allì, con su tamaño”. Evviva!

Si parte. Il mio sedile si trova in ultima fila, giusto in mezzo al
corridoio. E’ un sedile per bambini che non può in alcuno modo ospitare il
mio fondoschiena, però confido nel buon cuore del secondo autista e nella
comprensione di qualche compagno di viaggio. E’ fatta. Una tenera
vecchietta, piccola ed esile, accetta di cambiare il mio posto col suo,
evitandomi otto ore di sofferenza seduto sul pavimento.

Chosica, Matucana, si inizia a salire la dorsale andina.

Ore 14.15, quota 3000 metri: sosta pranzo.

Quasi tutti scendono a mangiare, ma io, unico straniero, decido che mi sta
bene una tavoletta di cioccolato e un po’ d’acqua. Gli altri, grandi e
piccoli, si abbuffano. Visto che sono peruviani, sapranno certo ciò che
fanno. Da parte mia, la paura del soroche, il mal di montagna, mi consiglia
prudenza. Si riprende a salire. Inizia a piovere. Si sale. 3800 metri,
piove. 4000 metri, nevica! Brutta storia, speriamo bene.

Il nevischio si muta in tempesta di neve, l’autobus arranca. Prego che non
si fermi, perché, con le sue gomme lisce, potrebbe non ripartire. Auto
rovesciate, camion in panne, bus che non ce la fanno più. Per fortuna il
nostro avanza, resiste. Il mal di montagna inizia a mietere le prime
vittime. All’interno dell’autobus c’è silenzio totale. I genitori aiutano i
figli sofferenti passando batuffoli di cotone imbevuti d’alcol sulle narici.
Nevica. Ticlio, 4818 metri d’altitudine, finalmente in cima. Ma ora, forse,
è ancora peggio.

La strada scende ripida e tortuosa verso La Oroya. “Cazzo, autista,
rallenta!” I sacchetti di plastica si riempiono di succhi gastrici e cibo
non digerito. “Porca miseria! Perché avete voluto rimpinzarvi?” Io sto bene;
provo solo una strana sensazione: sudore alla schiena e freddo allo stomaco.
Mi copro l’addome con la giacca e respiro piano cercando di mantenermi
rilassato.

La Oroya, il peggio è passato. Ora scenderemo verso l’Antisuyo, giù fino ai
3000 metri di Tarma e ancora più in fondo per raggiungere gli 800 metri di
La Merced nella Selva Central.

Il buio mi avvolge quando scendo dall’autobus alle otto di sera. Prendo al
volo il primo mototaxi e mi avvio in Plaza de Armas. La Merced è in festa
per il festival del caffè. Ora mi concedo una notte di riposo nel miglior
albergo del centro. Un “tallarin saltado” con carne mangiato di fretta e
senza voglia, una buona birra ghiacciata. Due passi per la plaza ad ammirare
i carri allegorici che transitano fra due ali di folla e ad ascoltare un
paio di bande musicali che suonano contemporaneamente motivi differenti;
solo una mezz’ora, poi la stanchezza ha il sopravvento.

La camera pare pulita. Accendo il ventilatore e la TV e mi metto sotto la
doccia fredda. L’acqua calda non esiste.

22 luglio 2000 (sabato)

Le tre del mattino, suona la sveglia. Con la testa pesante e gli occhi
gonfi, inizio a vestirmi. Porca vacca! Quel gran figlio di “buona
scarafaggia” non poteva trovare un posto migliore dei miei pantaloni per la
sua siesta? L’insetto impaurito mi scende in fretta dalle gambe e si
nasconde sotto il letto. Va bè, deve pur vivere anche lui.

Esco in una deserta plaza de Armas, scuoto il conducente di un mototaxi che
sonnecchia appoggiato al manubrio e mi faccio accompagnare al terminal
terrestre. C’è una Combi in partenza. Ho la fortuna di essere l’unico
“gringo” e, come tale, di vedermi assegnare il posto migliore, a fianco dell
’autista. Mi vergogno un poco, ma tant’è.

Si parte. La strada è asfaltata e si può correre, ma dopo pochi chilometri,
oltrepassato il ponte sul rio Colorado, abbandoniamo la via che porta a
Satipo, voltando a sinistra in direzione di Oxapampa. L’asfalto è solo un
ricordo. Si inizia a saltare, ma comincia anche l’avventura. Buche, fango,
dossi, frane. Si va. Passiamo rasentando piantagioni di banane e caffè,
attraverso la foresta amazzonica. Sempre più dentro. L’emozione è forte.
Poco più di tre ore e giungiamo a Oxapampa. Cambio di combi e via. Ora
inizia il tragitto più difficile. Accanto a me è seduto un ragazzo biondo,
occhi azzurri. E’ il primo pozuzino che incontro.

La strada diventa sentiero. Si cammina lentamente guadando torrenti,
sfiorando cascatelle, superando momenti difficili. Il rio Huancabamba scorre
impetuoso laggiù in fondo, oltre il ciglio della strada a cinque centimetri
dalle ruote del nostro veicolo. Massi, smottamenti, frane e alberi sradicati
costringono l’autista a pericolose manovre. Più volte sbatto il capo contro
il tettuccio e sempre più spesso mi chiedo se riusciremo ad arrivare alla
meta. Confesso di provare timore, ma questa è la vita che cercavo e questo è
ciò che ho ottenuto. Ho paura, ma sono soddisfatto!

Il ponte di “Prusia”, ancora tre chilometri e sarò a Pozuzo.

Andrés Egg mi accoglie con un abbraccio. Piange. Mi commuovo anch’io. Sembra
impossibile che un incontro durato pochi giorni si sia trasformato subito in
amicizia e che, a distanza di tre anni, questa si sia addirittura
rinforzata. Impossibile, però è così.

C’è baraonda nel villaggio. I coloni sono in fermento perché domani, 23
luglio, inizieranno i festeggiamenti che culmineranno martedì 25,
anniversario dell’arrivo in queste lande della desolata schiera di emigranti
tirolesi e prussiani. 141 anni fa, infatti, giunsero fin qui alcune famiglie
di contadini austriaci e tedeschi alla ricerca di una mitica terra promessa.
L’incredibile viaggio durò più di due anni e i tenaci colonizzatori
dovettero subire tribolazioni, sventure e morti per riuscire a realizzare il
sogno di una vita migliore.

Una piccola camera nella rustica casa di legno del fratello di Andrés è il
rifugio che accoglie il mio corpo malconcio. Poche ore di sonno, poi domani
parteciperò pure io ai preparativi della festa.

23 luglio 2000 (domenica)

Una leggera pioggia entra dalla piccola finestra priva di vetri e mi
inumidisce il viso, svegliandomi. Marmellata di papaya, banane fritte e
bollite, burro, pane croccante, uova strapazzate, succo di squisiti
arancini, tutto di produzione della famiglia Egg, mi attendono al tavolo del
“Tipico Pozuzino”, assieme ad un curioso e sdentato vecchietto di Lima che
non mi mollerà più fino al giorno della partenza.

Da pochi mesi, anche a Pozuzo è arrivata la tecnologia e nel centro esistono
due computer tramite i quali è possibile comunicare via internet. C’è un
solo inconveniente: il telefono funziona a raggi solari e, se le nubi
coprono il cielo per più di qualche ora, le comunicazioni si interrompono.
In tal caso, è giocoforza rimediare con la vecchia radio ancora efficiente e
sicura.

Grazie a Wilfredo Laura, il direttore della scuola, riesco a leggere la mia
posta elettronica e a collegarmi anche al ng cui invio un messaggio che,
però, scoprirò in seguito, non arriverà mai.

Le giornate successive trascorrono veloci, riempite da musica, danze, pranzi
e bevute. E’ una pappatoria monumentale. Mi piacerebbe essere un miliardario
per affittare un aereo e far conoscere a tutti gli amici del ng questo
paradiso!

Immagino Nb alzare al cielo una brocca di chicha inebriante e, aiutandosi
con entrambe le mani, ingurgitare la deliziosa spuma che gli cola sui baffi
e gli insozza la camicia, suscitando le proteste di Laura. Vedo Mario
grattarsi la crapa pelata, indeciso se afferrare un pezzo di carne della
“Pachamanca” (carne e patate cotte sotto terra), una pannocchia di mais
abbrustolita o una fetta di pesce crudo marinato nel limone, mentre, tenera,
Lori osserva. Più in là c’è Medaebe arrabbiata perché la sua allergia non le
consente di ubriacarsi come gli altri e Albert che, in mancanza del salame,
agguanta un cosciotto di maiale (sempre di porco si tratta, in fondo).
Denise strappa la bottiglia di birra dalle mani di un rassegnato Adriano,
intanto che Alessandra ed Elisa, in compagnia di Marcaval e Felicetto,
abbozzano i passi di una danza tirolese, fotografati da Fede e Oscar. A
Yoghi è stato detto che la foresta è abitata da orsi e così freme per
conoscere i parenti. Ma ci sono tutti gli amici, anche quelli che ancora non
conosco di persona, ci sono tutti nel mio sogno ad occhi aperti; tutti qui
in questo meraviglioso, sperduto EDEN.


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