Reduce da una serie di bianchi con Ofelia alla Terra Trema esco dal Leoncavallo con le Air Pods ficcate nelle orecchie che sono quasi le cinque del pomeriggio e sopra la mia testa il cielo è già nero. Mi dirigo con passo svelto, stretto nel mia giacca blu da marinaio con il bavero alzato, verso la fermata del bus e in sottofondo suona in digitale un pezzo tratto da The Complete Obscure Records Collection, la poderosa raccolta recentemente ristampata, che comprende tutti i dischi prodotti da Brian Eno per la sua mitologica etichetta Obscure Records, che ho ricevuto qualche giorno fa grazie a un ex collega di Radio Pop, che mi ha inviato tutti i 10 album via mail scrivendo nell’oggetto la semplice parola IMPRESCINDIBILE a caratteri cubitali.
[In due parole, per chi non la conoscesse, la Obscure Records, etichetta d’avanguardia di musica sperimentale fondata da Brian Eno nel 1975 con lo scopo di «iniettare nuove aree nel rock», è stata attiva fino al 1978. Ha in catalogo solo 10 dischi, mai più ristampati, che nel tempo sono diventati autentici oggetti di culto. Il gioiello Music for Airports dello stesso Eno, datato 1978, doveva essere l’11esimo album della serie, come testimoniato dalla scritta in copertina della prima stampa Uk OBS-11, ma poi l’etichetta venne chiusa e il disco aprì una nuova collana della Ambient Records, mettendo fine di fatto alla Obscure].
Ascolto con attenzione, isolandomi completamente durante il tragitto verso lo stadio, riflettendo sul fatto che la sensazione principale che questi album mi restituiscono è avere intorno un infinito senso di spazio; una roba simile a quella che solitamente provo ascoltando della roba di Nicolas Jaar o alcuni lavori di Miles Davis, di Alabaster De Plume o vecchi pezzi dei Boards of Canada. E penso tutto questo anche mentre cambio linea del metro in Piazzale Lotto sfogliando mentre aspetto il treno l’ultimo libro pubblicato da Minimum Fax di Mark Fisher, intitolato Non siamo qui per intrattenervi, che raccoglie una serie di considerazioni che il giornalista inglese aveva scritto sul suo blog K-Punk riguardo alla letteratura, prima di impiccarsi nel 2017 a soli 48 anni, devastato dalla depressione.
È strano tornare allo stadio dopo quasi 10 anni di assenza con Fisher arrotolato nella tasca dei jeans e i dischi della Obscure Records nelle orecchie, ma il tempo passa per tutti e le cose cambiano, tranne l’amore per il Millan, in effetti. Così eccomi qui, che esco dal bocchettone della metropolitana nel piazzale davanti a San Siro, cercando il fido Baj e i suoi due figli, Giorgio & Coco, con i quali ho appuntamento per assistere alla partita con la Fiorentina. Un vecchio numero di Rivista 11 sul “tifo”, uscito un paio d’anni fa, a cui avevo dedicato anche una puntata di PopUp, rifletteva sul fatto che il nuovo tifoso digitale viene considerato dai frequentatori dello stadio in generale e più in particolare da quelli delle cosiddette curve, una sorta di tifoso minore. «Se non ci sei non puoi capire», recitava un vecchio adagio ultras, tradotto in tutte le lingue del mondo, e posso dire che un tempo la pensavo anch’io così.
La prima volta che sono stato allo stadio avevo all’incirca 11 anni e avevo ossessionato mio padre a tal punto che alla fine lo avevo convinto a portarmici. Era una fredda giornata di marzo del 1991 e a San Siro scendeva in campo un Milan condotto da Arrigo Sacchi ormai alla fine del suo ciclo. Senza Ancelotti, Donadoni e Gullit, che all’epoca era il mio eroe assoluto, perdemmo una partita giocata male contro l’Atalanta, puniti da una capocciata del brasiliano Evair, che spedì in rete la palla che si infilò beffarda dietro le spalle di Pazzagli, dopo una cinquantina di minuti di gioco. Non bastarono nemmeno le prodezze di Marco Van Basten per risollevare quella squadra, campione d’Europa in carica, quel pomeriggio di marzo. Squadra che da lì a pochi giorni si sarebbe giocata tutto al Velodrome di Marsiglia, in Coppa dei Campioni, in una notte tragica che passò alla storia come “la notte dei lampioni”. Nonostante la sconfitta ricordo però che rimasi completamente rapito dall’atmosfera di San Siro, seduto di fianco a mio padre sulle poltroncine rosse della tribuna, con lo sguardo ebete di chi vede per la prima volta un luogo che nella sua mente fino a quel momento aveva idealizzato come mitologico.
La prima volta che sono stato allo stadio avevo all’incirca 11 anni e avevo ossessionato mio padre a tal punto che alla fine lo avevo convinto a portarmici. Era una fredda giornata di marzo del 1991 e a San Siro scendeva in campo un Milan condotto da Arrigo Sacchi ormai alla fine del suo ciclo. Senza Ancelotti, Donadoni e Gullit, che all’epoca era il mio eroe assoluto, perdemmo una partita giocata male contro l’Atalanta
Passarono gli anni delle medie e finalmente arrivò il periodo disturbato del liceo, quando San Siro, piano piano, divenne quasi un appuntamento fisso, sia al primo anello arancio, di fianco a DFA, quando suo padre (abbonatissimo da anni) disertava qualche partita, sia in Fossa, dove più che per vedere la gara si andava per drogarsi, saltando e cantando ininterrottamente per 90 minuti. Non sono mai stato un ultras perché in fondo l’atmosfera della curva non l’ho mai amata particolarmente, troppa tensione e troppi delinquenti tutti assieme, anche se devo ammettere che mi ci sono divertito parecchio per il periodo in cui l’ho frequentata. C’era chi si divertiva a costruire velieri in bottiglia, chi a caricare cilum a raffica, tutti uguali, democraticamente uno di fianco all’altro; il figlio dell’avvocato spalla a spalla con il tabbozzo delle case popolari, il plazaro con il giubbotto costoso di fianco al figlio del macellaio. Ogni tanto qualche malcapitato cadeva sotto le mire di qualche gruppuscolo particolarmente violento e così vedevi calci e cinghiate che volavano senza alcun motivo, così per il gusto di darle, anche tra sostenitori della stessa squadra. Non ho mai avuto un abbonamento, spesso compravo il biglietto, altre volte quando ci girava, aspettavamo che la celere si distraesse e con i regaZ scavalcavamo i cancelli dello stadio e poi correvamo a 300 all’ora verso le entrate del terzo anello, dove i controlli erano più flebili. Oggi con tornelli e steward disseminati ovunque sarebbe impossibile.
L’inizio del lavoro al bar la sera, in concomitanza con l’inizio della cosiddetta “banter era” rossonera mi ha nel tempo allontanato dallo stadio. Fino a oggi, quando, come un vecchio signore con il cappotto, di fianco a due ragazzini di 12 e 13 anni, mi sorprendo a esultare come un pazzo tra bandiere e fumogeni, per il gol del Milan
Il periodo migliore a San Siro fu però quello poco dopo i 20 anni, fissi al primo anello blu. Con il fido Baj arrivavamo allo stadio in vespa pochi minuti prima dell’inizio della partita ed entravamo gratis grazie a un amico che lavorava alle biglietterie e ci faceva passare, sia che fosse campionato che Champions. Una dopo l’altra, in quegli anni, seguimmo tutte le gare del Milan di Ancelotti, che all’epoca vinse uno scudetto e coppe a profusione. L’inizio del lavoro al bar la sera, in concomitanza con l’inizio della cosiddetta “banter era” rossonera mi ha nel tempo allontanato dallo stadio. Fino a oggi, quando, come un vecchio signore con il cappotto, di fianco a due ragazzini di 12 e 13 anni, mi sorprendo a esultare come un pazzo tra bandiere e fumogeni, per il gol del Milan.
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