Le assenze di Xi Jinping e di Joe Biden al tavolo della Cop28 che si è aperta giovedì a Dubai non lasciano presagire nulla di buono. E confermano la distanza, anche in materia di ambiente, tra Pechino e Washington, nonostante lo spiraglio aperto dal faccia a faccia tra i due leader dello scorso 15 novembre a San Francisco. «I grandi leader generalmente cercano di evitare i summit se prevedono che non avranno successo», ha commentato Josef Gregory Mahoney, professore dell’Università di Shanghai al South China Morning Post. E questo perché non vogliono essere associati direttamente a un eventuale fallimento.
Le accuse della Cina a Usa e Occidente
Proprio in occasione della giornata di apertura della Conferenza presieduta (paradossalmente) dal petroliere Sultan Al Jaber, capo della compagnia petrolifera Adnoc, sul Global Times, organo di stampa del Partito Comunista cinese, è apparsa una dura critica contro gli Usa e l’Occidente incapaci di assumersi le proprie responsabilità, contro gli sforzi “concreti” compiuti da Pechino per ridurre le emissioni. Il dato cruciale contestato dal Dragone è il mancato rispetto da parte di Nord America, Europa, Giappone e Australia del principio del Common But Differentiated Responsibilities (Cbdr) introdotto nella Convenzione quadro dell’Onu a Rio de Janeiro nel 1992: se è vero che tutti gli Stati condividono una responsabilità comune nei confronti delle sorti del clima e dell’umanità, questa deve essere però ‘misurata’ in base alla storia di ogni nazione, al suo livello di sviluppo e alla disponibilità di risorse. Tutti responsabili, in altre parole, ma non allo stesso modo. A partire dal 1850, Stati Uniti ed Europa sono stati responsabili di più della metà delle emissioni di anidride carbonica. Per questo è inconcepibile per la Cina essere messa nel mirino come principale inquinatore mondiale, sebbene nei fatti lo sia. Il Dragone lo scorso anno ha prodotto il 30 per cento delle emissioni globali ed è responsabile del 13 per cento delle emissioni storiche dall’inizio dell’industrializzazione, contro il 19 per cento degli Usa. Ma in una fase di rallentamento dell’economia non può permettersi di frenare. Soprattutto sul carbone, come chiesto dagli Stati Uniti e non solo. I numeri, agli occhi di Pechino, parlano da soli: il Pil pro capite cinese nel 2021 era di 12.500 dollari contro gli oltre 70 mila di quello Usa e il consumo energetico medio pro capite è più basso di due terzi rispetto a quello di Usa e Canada, per una popolazione di 1,4 miliardi di persone.
La guerra commerciale sulla transizione ecologica
Dietro al dibattito sul clima c’è poi la guerra commerciale tra le due superpotenze. Per Washington il Dragone resta una minaccia. La Cina infatti è leader indiscussa in alcuni settori chiave per la transizione ecologica mondiale, dall’industria di auto elettriche e batterie ai pannelli solari di cui Pechino controlla il 75 per cento del mercato globale. Gli Usa non intendono concedere all’avversario alcun vantaggio e per questo sono arrivati a decisioni drastiche come il divieto nel 2021 delle importazioni di componenti per pannelli solari prodotti da alcune società cinesi in seguito ad accuse di lavoro forzato. O la più recente esclusione (agosto 2022) dei veicoli elettrici made in China dai sussidi dell’Inflation Reduction Act, il maxi-piano da 370 miliardi di dollari varato da Biden per accelerare la transizione. Sgravi applicati però alle auto prodotte negli Usa, in Canada, in Messico e Giappone. Uno schiaffo per Pechino e per i suoi affari.
Powered by WPeMatico