Un tizio, curiosamente lo stesso che ha scritto il libro dei due che si erano lasciati di cui parlavo qui la settimana scorsa, l’altra sera, mentre mi ordinava una media rossa al banco del bar, mi ha detto: «Ho appena finito di scrivere un pezzo torrenziale su Lou Reed. Sono esausto!». Inizialmente non ci avevo prestato molta attenzione. Sì, ok, sapevo che era in uscita una monumentale biografia di cui avevo letto da qualche parte ma non vedevo altri particolari motivi per dedicargli un pezzo fiume. Poi il tizio mi ha liquidato velocemente, perché ha visto seduto ai tavolini fuori un interlocutore più interessante di me, un editore credo, e a Lou Reed non ci ho più pensato. Poi la mattina dopo apro Facebook (ma lo usa ancora qualcuno Facebook?), e nella sezione “ricordi”, che tra l’altro essendo un vecchio nostalgico è l’unica che uso, mi accorgo, vedendo un post muto con sopra la “banana” dei Velvet Underground, che sono 10 anni esatti che è morto Lou Reed.
«Ma tu li conosci i Velvet Underground, fratello?», mi chiese una mattina d’inverno DFA, «hai mai ascoltato Transformer di Lou Reed?». Mentre dalle casse dello stereo di suo padre suonavano le note di Vicious a tutto volume. Fu per il me 20enne una specie di epifania
Da un po’ di settimane sto facendo una ricerca andando a comperare i vinili degli album che uscirono nel 1973, dischi che hanno fatto la storia della musica, di cui quest’anno si celebra il cinquantenario e che ancora oggi suonano pazzescamente bene. Tanto per intenderci nel 73 uscirono in ordine sparso: Dark side of the moon dei Pink Floyd, Selling England by the pound dei Genesis, il debutto di Tom Waits Closing Times, Quadrophenia degli Who, Head Hunters di Herbie Hancock, Let’s Get It On di Marvin Gaye, Aladdin Sane di David Bowie. Oltre a, naturalmente, Berlin di Lou Reed, album strepitosamente difficile ma bellissimo, che narrava la storia d’amore maledetta di due tossicodipendenti americani a Berlino. Album bollato dalla critica semplicemente come un disastro ma che successivamente, come era accaduto ad esempio ai Clash di Sandinista o ai Beastie Boys di Paul’s Boutique, venne rivalutato arrivando perfino a essere definito un capolavoro. Berlin emanava all’ascolto amore tossico, poesia, puzza di piscio che ristagna e malattia cattiva. Un disco che probabilmente racconta meglio di altri cosa fosse realmente Lou Reed, uno che, tanto per citare Lester Bangs «è la persona che ha dato dignità, poesia e una sfumatura di rock’n’roll all’eroina, alle anfe, all’omosessualità, al sadomasochismo, all’omicidio, alla misoginia, all’inettitudine e al suicidio».
La prima volta che ascoltai un disco di Lou Reed fu intorno al 2000, avevo 20 anni, vivevo un disagio psichico esistenziale senza precedenti e le mattine, piuttosto di andare a scuola, vagabondavo per la città senza meta, strafatto di hashish a braccetto con la mia inadeguatezza. Era un periodo abbastanza tragico anche perché la casa di mia zia dove abitavamo in Piazza Adigrat era appena stata ipotecata dalla banca e sapevamo che da lì a poco ce ne saremmo dovuti andare. Dove non era chiaro. Mia zia da un paio d’anni lottava con un cancro ai polmoni che l’aveva fiaccata nell’animo e soprattutto nel fisico e la situazione economica in famiglia era a dir poco disastrosa. Per salvare la casa era stato dato come garanzia il fondo fiduciario che avevo ereditato da mia madre, avevo personalmente chiesto un fido in banca ma non era bastato. Frequentavo la quinta liceo scientifico in un Istituto per disadattati rampolli di famiglie bene in Via Ferrante Aporti ma non riuscivo a stare seduto in classe per più di mezz’ora, così, di punto in bianco, smisi di andarci. Spesso mi rifugiavo nello studio che il padre di DFA aveva di fianco all’istituto per disadattati rampolli di famiglie bene e, con lui, ascoltavamo musica e ci imbottivamo di polveri e resine fino all’ora di pranzo.
Berlin emanava all’ascolto amore tossico, poesia, puzza di piscio che ristagna e malattia cattiva. Un disco che probabilmente racconta meglio di altri cosa fosse realmente Lou Reed, uno che, tanto per citare Lester Bangs, «è la persona che ha dato dignità, poesia e una sfumatura di rock’n’roll all’eroina, alle anfe, all’omosessualità, al sadomasochismo, all’omicidio, alla misoginia, all’inettitudine e al suicidio»
«Ma tu li conosci i Velvet Underground, fratello?», mi chiese una mattina d’inverno DFA, «hai mai ascoltato Transformer di Lou Reed?», aggiunse, mentre dalle casse dello stereo di suo padre suonavano le note di Vicious a tutto volume. Fu per il me 20enne una specie di epifania, mi feci masterizzare i due cd e iniziai ad ascoltarli a ripetizione per tutto il giorno, tutti i giorni. In particolare trovai The Velvet Underground and Nico assolutamente perfetto, perché si sposava con il mio stato interiore, simile al disastratissimo studio nel Greenwich Village di Nyc dove fu registrato e perché, in definitiva, ero sempre fuori come una scimmia. Venus in Furs, Sunday Morning, i deliri di Heroin e di Run run run accompagnavano le mie giornate distorte e le mie disturbatissime notti, durante le quali con uno spino tra le labbra e completamente nudo, incidevo sulle pareti della casa di Piazza Adigrat, con un affilatissimo coltello da cucina, ovunque la frase: LA TUA CASA È MIA!
Dieci anni fa invece quando Lou Reed morì lavoravo per Rolling Stone e con Alb già conducevamo un format sperimentale di radio itinerante chiamato Juke Box on the Rocks. Avevamo liquidato l’ultimo album prodotto dal Re di New York con i Metallica, mi pare si chiamasse Lulu, come pura spazzatura ma, pochi giorni dopo la sua morte, a un party di Halloween dietro Porta Genova dove eravamo andati a trasmettere, aprimmo il programma con Walk on the wild side e gli dedicammo la puntata. Ricordo anche che disannunciando il pezzo dissi: «E lo sapete chi suonava il basso in questo disco di Lou Reed? Un ragazzino di nome David Bowie!».
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