«La vita inizia a 50 anni». Un’affermazione consolatoria è diventata il grido di battaglia dei Fiftiers, associazione business oriented che terrà il suo primo congresso a Madrid il prossimo 25 novembre. La diversità generazionale è il tema centrale di un movimento che rivendica «la dignità delle rughe e la nobiltà dei capelli d’argento». Insomma botox libero e bisturi democratico. Anche se a guardare con più attenzione, ci si rende conto che l’invocata diversità generazionale è in realtà un conflitto padri contro figli. Scrivono infatti i Fiftiers: «Siamo già 17,9 milioni e raddoppiamo il numero dei 18enni… superiamo di 6 milioni gli under 25 anni…siamo tecnologici e atletici…ci piace la qualità della vita…rappresentiamo il 61 per cento delle decisioni di consumo diretto e il 15 per cento di quelle indirette (figli e parenti)».
Dai baby boomer siamo passati a un popolo di baby looser costretti a lasciare l’Italia
Ora sono pronto a scommettere che presto vedremo scendere in campo anche i Fiftiers italiani. Anzitutto perché la situazione economica e socio-demografica dei due Paesi è simile. In secondo luogo perché non passa giorno che non si confermi quel che si dice da 20 anni e cioè che l’Italia non è un Paese per giovani. La nomina dell’85enne Giuliano Amato a presidente della Commissione parlamentare sugli algoritmi è solo l’aspetto clamoroso di una situazione che dovendo migliorare continua invece a peggiorare. Correva l’anno 2008 e usciva il romanzo generazionale Mi spezzo ma non mi impiego di Antonio Baiani, che raccontava le vite di 20/30enni, ma anche 40enni, precari e sospesi fra impieghi saltuari e vite in stile Ikea. Ma 10/15 anni dopo i «bamboccioni» italiani o «gioventù sdraiata» omologhi della Génération précaire francese o dei milleuristas spagnoli (mille euro al mese) sono scivolati ai 600 euro degli stage al tempo determinato. Con l’accusa e aggravante morale di essere a caccia di reddito di cittadinanza anziché cercarsi un lavoro. Dai baby boomer si è passati ai baby loser. Ai perdenti già al momento dell’adolescenza. Per questo costretti a emigrare. Dal 2011 al 2021 sono emigrati 1,3 milioni di giovani italiani tra i 20 e i 39 anni, il triplo dei 451 mila dei dati ufficiali (Fondazione Nord-Est). Con un +87 per cento, per lo più di giovani laureati, nel 2022 (Rapporto Migrantes).
I giovani disertano le urne, mentre la politica resta nelle mani di vecchi arnesi (anche se anagraficamente non lo sono)
Basterebbero questi dati, senza aggiungere le ansie diffuse e profonde per l’inquinamento e il cambiamento climatico, per indurre i giovani a buttare tutto per aria. Magari tornando a votare e con la consapevolezza che la rappresentanza dei propri interessi materiali non può essere affidata a chi giovane non è. Nelle ultime elezioni la fascia d’età 18-34 anni ha disertato le urne per il 37 per cento (rilevazione SWG e You Trend). Mentre la politica nazionale continua a essere nelle mani di “vecchi arnesi”, anche quando all’anagrafe relativamente giovani. Prova è che attualmente il tema di scontro fra governo e opposizioni, anche sindacale, sono le pensioni.
Persino i nomi dei movimenti giovanili come Ultima generazione ed Extinction Rebellion Italia esprimono rassegnazione
Certo è una provocazione proporre la costituzione di un partito dei giovani (PdG). Non lo è ricordare che la nascita travolgente del movimento delle Sardine che nel 2019 portò in piazza decine di migliaia di ragazzi e ragazze, nel giro di un anno si è sciolto come neve al sole. Il Covid è stato un killer implacabile della socialità, ma è allarmante la ritirata e la resa rispetto a situazioni che gridano vendetta (gli stipendi d’ingresso nel mercato del lavoro spesso minori dell’assegno medio delle pensioni d’anzianità). Colpisce però di più che a fare notizia sia il patologico e diffuso stato d’ansia adolescenziale. È di questi giorni l’indagine di Telefono Azzurro e Doxa sui ragazzi di 14-16 anni che si sono rivolti all’associazione, dei quali il 21 per cento si dichiara ansioso e preoccupato, il 6 per cento triste, il 41 per cento infelice e il 50 per cento percepisce il futuro come qualcosa di oscuro (sempre più giovani soffrono d’ansia, ma uno su tre si vergogna di chiedere aiuto, secondo Demografica di Adnkronos). Già i nomi della gioventù che contesta esprimono bene uno stato d’animo più rassegnato e disperato che combattivo e determinato a cambiare lo stato presente di cose: Ultima generazione e Extinction Rebellion Italia (che ha contestato all’Università di Venezia Cà Foscari Enrico Mentana, accusato di partecipare alla «criminalizzazione mediatica dell’attivismo climatica»).
Sostenibilità deve fare rima con responsabilità
Forse, suggerirebbero uomini marketing e pubblicitari, chiamarsi Prima Generazione aiuterebbe a mobilitare coetanei e non, lanciando un messaggio non da prossima fine del mondo, ma da inizio di una epoca e società nuove. Utile anche per ribadire che sono loro stessi i primi a volere cambiare. Perché possono anche cantarle chiare e forti ai Fiftiers – giusto per dirla con le parole di Classico l’ultima e gettonatissima canzone degli Articolo 31: «…Oggi si accusa il giovane di essere un fallito/dipendente dal telefonino/sti vecchi che si fanno le foto all’aperitivo/col botulino in faccia mentre bevono un mojito…» – però con la consapevolezza che la sostenibilità, parola che identifica la Generazione Z, che è digitale per definizione, deve fare rima con responsabilità. Quella invocata in un editoriale del Boston Globe, di alcuni giorni fa, in cui si invitano i giovani studenti a studiare e informarsi in classe sul conflitto Palestina- Israele invece che su TikTok.
La necessità di una lotta collettiva
Ovviamente mi guarderò bene dal sostenere luoghi comuni consunti, e ricorderò che il conflitto generazionale è stato in ogni epoca la norma piuttosto che l’eccezione. Gioventù non è sinonimo di spensieratezza. «Non permetterò a nessuno di dire che 18 anni sono l’età più bella della vita». Questa citazione di André Gide è stata una delle più gettonate dal movimento di contestazione del 68. Che qui evoco per ricordare che è stata l’ultima, quasi remota, protesta capace di mobilitare l’intero universo giovanile. Il «lotta dura senza paura» ha avuto anche tragiche conseguenze e derive sanguinose, tuttavia ha il grande pregio di ribadire che lo scontro non può avere solo forme decorative, come imbrattare muri e ostacolare il traffico automobilistico (peraltro l’ultimo Consiglio dei ministri ha deciso di inasprire le pene ai trasgressori). Ma deve perseguire trasformazioni radicali della struttura economica e sociale. Essere determinato, combattivo, intransigente. «Mi ribello dunque siamo». È la citazione e il titolo dell’omaggio curato da Vittorio Giacopini per Eleuthera in occasione dell’anniversario della nascita – 110 anni- del grande pensatore sovversivo Albert Camus. Un invito alla lotta collettiva, da accogliere ogni volta sia minacciata la libertà di qualcuno o negato un diritto. Senza aspettare di avere 50 anni. Anche perché attualmente i 50enni sono in ben altre e ben più frivole faccende affaccendati.
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