Vent’anni fa, nel novembre del 2003, si consumava la rivoluzione delle rose in Georgia, la prima repubblica ex sovietica a passare dalla sfera della Russia a quella occidentale. Le tre baltiche, Estonia, Lettonia e Lituania, avrebbero fatto il loro ingresso nella Nato ufficialmente nel 2004, ma il loro destino sulla scacchiera geopolitica si era già deciso negli Anni 90 a causa alla desistenza di Mosca, impegnata nel primo decennio della transizione postcomunista più che altro a sopravvivere a se stessa. All’inizio degli Anni Duemila al Cremlino c’era già Vladimir Putin, uno che non avrebbe allentato tanto facilmente l’influenza della Russia su quello che ha sempre considerato il proprio giardino di casa.
La rivoluzione pacifica contro il filorusso Eduard Shevardnadze e la vittoria di Saakashvili
Le rose, dunque, quelle che il primo presidente georgiano Zviad Gamsakhurdia gettò ai nemici invece di sparare pallottole. Gamsakhurdia era uno scrittore, dissidente ai tempi dell’Urss, eletto all’inizio del 1990 presidente del Consiglio supremo della repubblica ancora sovietica della Georgia, diventata indipendente sotto di lui qualche mese dopo e destituito nel 1992 da un colpo di stato militare. Poca gloria per lui, trasformatosi in pochi mesi di potere in una specie di dittatore nazionalista. Nel novembre del 2003 per oltre tre settimane la Georgia, o per lo meno la capitale Tbilisi, si rivoltò contro l’allora presidente Eduard Shevardnadze, ex ministro degli Esteri a Mosca ai tempi di Mikhail Gorbaciov ed eletto presidente nel 1995, dopo i vari conflitti esplosi nel dopo Gamsakhurdia con la Georgia lacerata internamente, divisa dai territori ribelli di Ossezia del sud, Abcasia e Adjaria. Da un parte il vecchio, rappresentante di una leadership vetusta con legami forti ancora con la Russia, dall’altra parte il nuovo, con Mikheil Saakashvili, giovane ministro della Giustizia, con forti legami con gli Stati Uniti, dove aveva studiato e lavorato come avvocato. Le elezioni parlamentari del 2 novembre 2003 vinte dalla coalizione pro Shevardnadze non furono riconosciute dall’opposizione che scese in piazza e in maniera non violenta costrinse il presidente a dimettersi, sostituito a gennaio da Saakashvili. Questo in sintesi quello che accadde due decenni or sono. Non si trattò esattamente di un movimento naturale e spontaneo, ma fu accompagnato da una regia che negli anni precedenti aveva preparato il terreno: da Saakashvili in persona, al supporto degli Stati Uniti sia politico che finanziario all’opposizione, passando per il ruolo della miriade di organizzazioni non governative finanziate dall’Occidente che aiutarono a coordinare la protesta contro il vecchio regime. Un modello in parte collaudato qualche anno prima nei Balcani, ma che nel Caucaso raggiunse la piena efficienza con il successo completo e incruento per Saakashvili e gli Usa.
La guerra russo-georgiana e il distacco di Ossezia del Sud e Abcasia
La Georgia rimase però in bilico, perché lo strappo non fu definitivo e lo stesso Saakashvili ci mise del suo per far rientrare in gioco la Russia. Il presidente georgiano rimase in carica per due mandati, fino al 2014 e se il primo fu destinato alle riforme, il secondo venne caratterizzato da un crescente autoritarismo e dal disastro della guerra con Mosca, intervenuta militarmente nel 2008 dopo il tentativo di Tbilisi di riprendere il controllo delle regioni indipendentiste di Ossezia del sud e Abcasia. Il duello a distanza tra Saakashvili e Putin si concluse con la vittoria del secondo e il distacco definitivo delle due repubbliche dalla Georgia. Allora gli Usa e l’Occidente non vollero cogliere i segnali, molto chiari, che giungevano da Mosca, con la linea rossa tracciata dal conflitto dei cinque giorni nell’agosto del 2008. E pensare che in Ucraina era già arrivata nel 2004 la rivoluzione arancione e nel 2006 in Kirghizistan quella dei tulipani, entrambe naufragate brevemente. Segnali, insieme con il conflitto georgiano, che Mosca non avrebbe mai abbandonato la propria sfera di influenza, mentre Washington cercava di entrare in salotto. Il successivo tentativo, riuscito da parte occidentale, quello di Euromaidan a Kyiv tra il 2013 e il 2014 avrebbe condotto a disastri ancora peggiori: prima l’annessione della Crimea, poi la guerra nel Donbass, infine nel 2022 l’invasione su larga scala dell’Ucraina.
La parabola di Saakashvili e i tentativi di Zelensky di farlo ritornare in Ucraina
Mikheil Saakashvili , dopo aver abbandonato la Georgia inseguito dalla giustizia, è finito prima in Ucraina, nominato dal primo presidente filoccidentale Petro Poroshenko governatore di Odessa dal 2015 al 2016. Successivamente fu scaricato anche da Kyiv. Condannato in contumacia per abuso di potere a sei anni di carcere, fu arrestato nel 2021 a Tiblisi dove era tornato per sostenere l’opposizione prima delle elezioni. Al momento si trova ancora in carcere. A luglio 2023 il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha lanciato un appello per far lo ritornare in Ucraina – Saakashvili ha la cittadinanza ucraina dal 2019 – per consentirgli cure necessarie e per gli accertamenti medici.
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