Portare in palcoscenico la storia di oggi – così recente che ancora la tensione della cronaca cova sotto la cenere, così presente che la successione di tragici eventi sembra un ordine seriale non modificabile – è stata a lungo la sfida di uno dei più importanti compositori contemporanei, John Adams. Dal suo debutto con Nixon in China (1987), il 76enne musicista del Massachusetts, uno dei grandi nomi del cosiddetto minimalismo, ha variamente percorso le strade suggerite dagli avvenimenti contemporanei. Poco a che vedere – almeno sul piano dei soggetti – con la maggior parte delle scelte del caposcuola, Philip Glass, di 10 anni più anziano, che nell’ultimo ventennio del secolo scorso andava proponendo per la scena personaggi come Einstein o il faraone Aknaten, o Galileo Galilei, oppure faceva ricorso alla letteratura, com’è il caso di The Fall of the House of Usher, da Edgar Allan Poe, lavoro portato al debutto nello stesso anno in cui Adams raccontava in musica lo storico incontro fra il presidente Usa e Mao-Tse-Tung.
Le polemiche su The Death od Klinghoffer a partire dalla prima a Bruxelles nel 1991
Il secondo lavoro per il palcoscenico di Adams, The Death of Klinghoffer (La morte di Klinghoffer), ha avuto una vita complicata fin dal suo primo apparire, al Théâtre de la Monnaie di Bruxelles, nel marzo del 1991, con la regia di Peter Sellars. E il motivo è facilmente intuibile. Si tratta infatti di una rievocazione del dirottamento della nave da crociera Achille Lauro da parte di quattro terroristi appartenenti al Fronte per la Liberazione della Palestina, avvenuto nell’ottobre 1985. L’azione culminò nell’omicidio del cittadino americano di religione ebraica Leon Klinghoffer, che aveva 69 anni ed era costretto su una sedia a rotelle e dopo essere stato ucciso con due colpi di pistola fu gettato in mare dai terroristi. Concluso il dirottamento e arrestati i suoi responsabili, che furono processati in Italia perché la nave batteva bandiera italiana, a proposito specialmente di questo feroce delitto si scatenò la cosiddetta “crisi di Sigonella”, che vide i rapporti fra Stati Uniti e Italia arrivare al punto più basso dal Dopoguerra a oggi.
Le controversie statunitensi sul presunto antisemitismo dell’opera di Adams
Più che in Europa, l’opera ha avuto vita difficile negli Stati Uniti, a causa dell’aspra e prolungata, ricorrente controversia sul suo presunto antisemitismo, addebito sempre sdegnosamente respinto dal compositore, che ha ripetutamente affermato di essersi ispirato a un rigoroso equilibrio nell’illustrare le posizioni dei palestinesi e quelle degli ebrei. Posizioni riflesse nell’ampio spazio dato alle pagine corali nelle quali, appunto, i due popoli esprimono il loro sentire. In ogni caso, lo stesso Adams aveva provveduto almeno inizialmente (poi le esecuzioni integrali non sono mancate) a eliminare una scena dell’opera, nella quale i vicini di casa dei Klinghoffer negli States sono rappresentati secondo quelli che sono stati da più parti accusati di essere stereotipi antisemiti. E quella scena non è presente neanche nella sola registrazione discografica oggi reperibile. Ma il musicista ha tenuto la posizione sull’impianto generale del lavoro, nonostante nel tempo sia stato attaccato anche da intellettuali autorevoli come il musicologo Richard Taruskin.
Nel gennaio 2002 la prima a Ferrara pochi mesi dopo l’attacco dell’11 settembre
Rappresentata negli Stati Uniti, durante gli Anni 90 e i primi anni Duemila, sempre con accompagnamento di proteste, l’opera è approdata sul massimo palcoscenico operistico americano, quello del Met di New York, soltanto nell’autunno del 2014, a 23 anni dalla prima assoluta. In quell’occasione, è stata sospesa la programmata trasmissione in streaming della rappresentazione, scelta che ha causato la risentita protesta di Adams, ma lo spettacolo è andato in scena con il calendario stabilito senza ulteriori problemi. In quel momento, la prima assoluta in Italia (a quanto ci risulta, anche l’unica produzione) era già avvenuta da oltre un decennio. The Death of Klinghoffer è stata infatti rappresentata al teatro Comunale di Ferrara nel gennaio del 2002, pochi mesi dopo il sanguinoso attacco terroristico alle Due Torri dell’11 settembre 2001, in un intrigante allestimento firmato dal regista Denis Krief, poi replicato il mese successivo anche a Modena (direttore Jonathan Webb). Per capire il clima, nel novembre di quell’anno il coro dell’opera di Boston si era rifiutato di eseguire in concerto alcuni dei cori dei palestinesi e degli ebrei contenuti nella partitura. Nella città dei Finzi Contini, sede di una delle più importanti comunità israelitiche italiane, non si è dovuta registrare alcuna contestazione. Alla fine – chi scrive era presente – il successo è stato pieno.
Una drammaturgia essenziale da cui emergono l’ideologia e le radici culturali dei personaggi
Anche se tutta l’opera, a partire dal prologo con i suoi due grandi cori, si basa su una sorta di “simmetria” che in qualche modo mette di fronte la prospettiva dei palestinesi e quella degli ebrei, o più generalmente dell’Occidente, il tema politico finisce per essere trascinato dalla tensione dell’evento che si racconta, secondo una logica drammaturgica asciutta, essenziale. Ne sortisce una sorta di epica tesa, drammatica, densa di implicazioni psicologiche che non riguardano tanto i personaggi (sono quelli della cronaca, ma nessuno ha un reale rilievo individuale) quanto la loro ideologia, i loro sentimenti di popolo, le loro radici di cultura. La partitura di Adams ha molte più frecce al suo arco del ricorso agli stilemi ricorrenti del minimalismo musicale. Certo, rimane il gusto per i piani sonori ben definiti, omogenei, per le progressioni armoniche, per le tinte soffuse e le dinamiche sottili, per un’invenzione melodica a tratti rarefatta. Qui però, fermo restando un eloquio comunque trasparente e “comprensibile”, senza astrusità, s’impone anche una cifra espressiva effettivamente drammatica, molto ricca di sostanza ritmica, plasticamente teatrale. Non c’è distacco intellettualistico, ma partecipazione a tratti vibrante, comunque efficacemente comunicativa, specialmente nelle grandi pagine corali che punteggiano il dramma secondo una logica che affonda le radici nella tragedia greca e ha i suoi antecedenti musicali nell’Oratorio. Meno incisiva la scrittura vocale dei singoli personaggi, soprattutto per l’insistenza su un declamato anche duttile ma in qualche caso almeno rinunciatario nella sua ripetitività.
Il libretto di Alice Goodman non perde mai di vista il dramma di popolo
Il libretto della poetessa Alice Goodman (la stessa autrice di Nixon in China) è spesso ridondante, complesso nella gran mole di riferimenti coranici o biblici (l’autrice è anche ministra di culto della Chiesa Anglicana al Trinity College di Cambridge), ma non perde di vista, ed è essenziale, il filo rosso del dramma di popolo che racconta. E il dramma, da tutti i punti di vista, sta in queste atroci parole pronunciate dal terrorista Mamoud: «Il giorno che io / E il mio nemico / Staremo tranquillamente seduti / Ognuno dei due a esporre il suo caso / Sforzandoci di raggiungere la pace / Quel giorno morirà la nostra speranza / E anch’io morirò». Dopo 30 anni, parole ancora di sconvolgente e tragica attualità.
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